Il grande successo dei prodotti contenenti CBD ha avuto sicuramente lo straordinario merito di far conoscere le innumerevoli proprietà della canapa ad ampi strati della popolazione. D’altra parte però, avendo avvicinato persone che poco conoscono della fisiologia della pianta, si è creata ulteriore confusione su un tema per diversi motivi da sempre poco chiaro.
Molti clienti, soprattutto al loro primo approccio a questo mondo, tendono a scegliere le infiorescenze dal valore di CBD più alto. La prima considerazione da cui partire è che non esiste in natura una pianta di cannabis, una volta secca, che sviluppi un valore di CBD superiore al 20%. Quindi diffidate di produttori, commercianti e analisi di laboratorio che mostrino in etichetta un valore di cannabidiolo superiore.
Al fine di capire come si arrivi a questo limite naturale di cannabidiolo e allo stretto rapporto tra valori di THC e CBD, riportiamo un interessante articolo della rivista specializzata Leafly. Il portale di informazione sulla cannabis legale prende in considerazione diversi dati su genetiche commerciali provenienti da più di 1200 laboratori dello stato di Washington. In breve quello che ne risulta è che le piante di cannabis commerciali possono essere classificate in 3 macro gruppi in base al rapporto tra valori di THC e CBD che sviluppano.
Il primo è quello delle genetiche a fortissima prevalenza di THC, con valori di cannabidiolo praticamente irrilevanti. La continua ricerca da parte di grower e seed bank ha portato alla creazione di piante con un livello di THC che sfiora il 30%. Un valore veramente alto, basti pensare che già infiorescenze con un 18/20% sono considerate ricche di tetraidrocannabidiolo. Tra gli strain più famosi che raggiungono tali elevate percentuali troviamo sicuramente la Gorilla Glue e la Girls Scout Cookies, entrambe vicine al 25%.
Abbiamo poi le genetiche che ben bilanciano entrambi i principali cannabinoidi. Valori che vanno dal 5 al 15% sia di THC che di CBD caratterizzano queste piante, le quali risultano le più rilevanti a livello medico. Negli ultimissimi anni infatti si è iniziato a studiare come interagiscono i due cannibinoidi, con importanti risvolti non solo clinici. Si è visto che il CBD allevia gli effetti psicotropi del THC, esaltando quelli terapeutici, e addirittura fungere come suo antagonista, visto che va a stimolare un recettore diverso da quello del THC. Ma siamo solo all’inizio della ricerca.
Nell’ultimo gruppo troviamo invece le genetiche che a noi più interessano, in quanto sono le uniche che possiamo trattare. Tali infiorescenze una volta essiccate presentano valori trascurabili di THC e un contenuto di CBD piuttosto alto. Negli USA lo strain campione di questo gruppo è la Charlotte Web che presenta un 1% di tetraidrocannabidiolo a fronte di un 20% di CBD. Ed è proprio questo nella maggior parte dei casi il rapporto che lega i due principi attivi: THC:CBD = 1:20. Negli ultimissimi mesi però la famosissima seed bank Dinafem ha lanciato la sua linea Dinamed dedicata a piante a prevalenza CBD. La casa spagnola afferma di poter raggiungere un ratio più alto, pari circa a un rapporto di 1 a 25. In Italia visto che è possibile trattare infiorescenze con un valore di THC tra lo 0,2 e lo 0,6%, è quindi naturale avere valori di cannabidiolo tra l’8 e il 15% massimo.
Per concludere questa parte, la cannabis naturalmente non può sviluppare un ammontare di cannabinoidi superiore al 35%, per limiti genetici. Normale, visto che per sopravvivere la pianta ha bisogno anche di altri fondamentali elementi come grassi, carboidrati, proteine, vitamine e minerali.
Detto questo, di conseguenza tutte le infiorescenze che vantano una percentuale maggiore presentano analisi contraffatte, o quanto meno poco chiare. Oppure vengono sofisticate con additivi, come terpeni o estratti di CBD, che una volta aggiunti al fiore permettono di superare quel famoso 20%. Questo non vuol dire che siano prodotti dannosi o poco salutari, ma sicuramente non sono naturali. Tant’è che spesso tali infiorescenze presentano un odore non molto piacevole dovuto proprio ai terpeni di laboratorio. Ma non solo, il CBD “spruzzato” o comunque aggiunto è molto più volatile di quello che sviluppa naturalmente la pianta e che mantiene saldamente nei propri bud. Quindi una volta riscaldata, (che sia cotta, vaporizzata o bruciata) quella parte di CBD additiva tende a ridursi notevolmente fino a scomparire del tutto.
E’ proprio per questi motivi che noi sconsigliamo di scegliere le infiorescenze al loro livello di CBD, che sia più o meno alto. Piuttosto, invitiamo i nostri clienti a ispezionare i diversi tipi di fiori e, perché no, ad annusarli, prediligendoli per le loro qualità olfattive.
D’altronde, è come se gli appassionati di vini o birra artigianale scegliessero le loro bevande preferite in base al valore alcolico più elevato, con il grottesco risultato che si berrebbero solo Amaroni e Imperial Stout.